Ottobre 2022, Librellula n° 13
Un anno fa, precisamente il 30 settembre, ho conosciuto Caterina Soffici, venuta da Iocisto per presentare il suo romanzo Quello che possiedi, edito da Feltrinelli. Confesso che prima di quell’occasione non avevo letto nessun libro di Caterina, ma mi avevano colpito alcuni suoi articoli sulla Stampa, sul Sole24 Ore, su Robinson e Tuttolibri. Sulla copertina di quel romanzo spiccava una splendida foto di Anouk Aimée, bellissima, assorta, con un bicchiere in mano. Romanzo avvincente, con una costruzione che affascina e cattura senza riserve il lettore; ma, ancora più del libro, mi affascinò lei, la scrittrice, la giornalista, la donna, che, dopo un breve colloquio, non ha dubbi nel destinare la dedica alla sua ‘amica guerriera’; che non ha remore nel raccontarci di non aver fatto ancora pace con la figura del nonno (quell’ Ardengo Soffici che fece conoscere in Italia Cezanne e i Cubisti, ma che firmò nel ’25 il Manifesto degli intellettuali fascisti); che ha fatto della libertà di scelta la sua regola di vita. Sposata e con due figli, vive tra Londra e la Val d’ Aosta, dove ha ambientato il suo ultimo romanzo Lontano dalla vetta – Di donne felici e capre ribelli, pubblicato da Ponte alle Grazie. Inutile sottolineare quanto sia stata autentica e generosa nel rispondere alle mie domande: lei è così e – si è capito – a me piace tantissimo!
L’attenzione al particolare è una costante della tua scrittura: in Quello che possiedi (Feltrinelli editore) descrivi mondanità e lussi, in Lontano dalla vetta (Ponte alle Grazie edizioni) elogi la vita semplice di montagna fatta di pascoli, passeggiate, riflessioni nel silenzio, bisogno di riappropriarsi di un tempo dilatato. Due romanzi completamente diversi ambientati in due luoghi completamente diversi, Firenze e le Alpi: un atto di amore nei confronti dei tuoi luoghi del cuore?
Senza i particolari non si può comporre un quadro generale e i luoghi fanno parte dell’identità di una persona, plasmano l’inconscio. Io mi sento sempre un po’ dislocata, nel senso che non ho un luogo, perché ho girato molto, ho vissuto a Milano e a Londra, per un periodo a Roma, durante gli studi. La dimensione della città adesso mi sta un po’ troppo larga. Vorrei vivere in un posto più raccolto, un paese, un villaggio come quello delle Alpi, addirittura. La metropoli ti crea l’illusione di essere al centro di qualcosa che è vivo e si muove, ma non sempre è vero. Le grandi città sono sempre più omologate, basta pensare ai negozi, ormai ovunque trovi le stesse marche e le stesse vetrine. Per me tantissimo, forse perché ho lasciato Firenze appena finita l’università e sono sempre stata un’anima in pena, alla ricerca di un altro luogo dove sentirmi a casa. In questo trovo geniale un romanzo come Oblomov, in cui il protagonista non riesce a lasciare la propria casa e le sue abitudini. Ci vuole coraggio anche per stare, non solo per partire.
Nel giorno del funerale della regina Elisabetta II d’Inghilterra, hai raccontato in un articolo di un altro funerale, quello di Mahsa, la ragazza uccisa, a soli ventitre anni, in Iran con bastonate alla testa per non aver indossato il velo; qualche giorno dopo hai intervistato Giacomo Longhi, esperto del panorama culturale letterario iraniano contemporaneo (traduttore di Teheran Girl, di Mahsa Mohebali, per Bompiani Editore): la giornalista si impone sulla scrittrice? In quale delle due forme di comunicazione nutri maggiore passione?
Sono due cose che non si escludono. In entrambi i casi racconto storie, scavo nelle pieghe dell’umanità per cercare la cosa che stona, che va storta, che non torna e che quindi vale la pena indagare. Se non c’è una storia non puoi scrivere. Non parlo di fatti, quelli sono cronaca. Parlo di storia nel senso letterario del termine, può essere anche un viaggio all’interno della propria mente. Cambiano il tono e il linguaggio, la forma della narrazione, che per i giornali è semplificata e più codificata, perché ai vincoli di tempo e spazio. Anche la lingua deve essere più immediata e diretta a ciò che stai raccontando. In un romanzo o in un racconto tutto si dilata. Puoi stare una settimana senza scrivere neppure una riga, ma nella tua testa stai creando e quindi comunque stai producendo e scartando idee e situazioni. Anche il pensiero di quello che stai scrivendo o che scriverai fa parte della creazione. Sembra strano detto così, ma è quello che succede. Almeno a me. Nei tempi di un giornale non c’è camera di compensazione, l’idea o il fatto va direttamente nella parola scritta. E non sempre è un bene.
Mi diresti tre titoli di libri letti rispettivamente a venti, trenta e quarant’anni che ritieni indimenticabili e perché?
Libro dei vent’anni: Martin Eden di Jack London. Perché c’è tutto quello che vuoi leggere a vent’anni. L’amore, la rabbia, la follia, il riscatto, la passione, la sfida e la perdizione. Libro dei trent’anni: Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, per il senso dell’attesa, quell’interminabile guardia alla Fortezza Bastiani che contiene insieme l’ansia e l’attesa per la vita che hai davanti e la paura di aspettare qualcosa che potrebbe non accadere mai. Libro dei quaranta: Virginia Woolf, La signora Dalloway, perché è un capolavoro assoluto e contiene tutta la meraviglia della letteratura. In una giornata si possono raccontare il mondo e una vita, anzi più vite. Ma ne avrei una lista molto più lunga…
E’ attuale la figura di Olivia, in ‘Quello che possiedi’, ragazza che attraversa gli anni del femminismo e torna poi volontariamente prigioniera dei vecchi schemi?
Olivia non è attuale, è un po’ fuori dal tempo, per via della famiglia da cui proviene, molto tradizionale e patriarcale. Lei è stata sfiorata dal vento del femminismo, ma è stata solo una folata. Come tante donne della sua generazione, che è un po’ quella delle nostre madri, più che decidere volontariamente la propria strada è rimasta impigliata nella routine di un matrimonio e di una vita famigliare che alla fine per forza le va stretta. Il punto è se riuscirà a venirne fuori, a rompere il circolo. In questo la vedo come un monito alle generazioni di oggi, che danno per scontate alcune conquiste e che invece dovrebbero farsi un po’ più di domande e soprattutto trovare delle risposte.
Gramsci affermava che la Storia insegna ma non ha scolari: quanto credi sia giusta la sua affermazione all’esito delle elezioni politiche in Italia?
Concordo e aggiungerei che gli scolari, ci fossero, sarebbero pure dei somari. Comunque per capire il carattere nazionale consiglio a tutti la lettura di un libro di Luigi Barzini jr, Gli Italiani, molto citato e letto all’estero (la prima edizione del 1964 era in inglese, perché l’aveva scritto per spiegare l’Italia agli stranieri, operazione praticamente impossibile) e troppo poco conosciuto in patria. Spiega bene dove nascono certe nostre caratteristiche pessime, a partire dalla categoria del fesso e del furbo e sfata una volta per tutte l’idea degli italiani brava gente.
