Intervista a Igiaba Scego, di Cristina Marra e Gigi Agnano

31 Maggio 2023

Giugno 2023, Librellula n° 18

Un libro intimo

Intervista a Igiaba Scego di Cristina Marra e Gigi Agnano

 

Buongiorno Igiaba, ho finito da poco un romanzo di Jenny Erpenbeck che si chiama Voci del verbo andare, pubblicato da Sellerio, che racconta di un filologo in pensione che entra a contatto un po’ per caso con un campo profughi a Berlino. Il professore ripete a sé stesso una specie di tormentone, dice: “la capitale del Ghana è Accra, la capitale della Sierra Leone è Freetown, la capitale del Niger è Niamey”. Perché noi europei sappiamo così poco dell’Africa?

Sì, lo conosco, è un libro molto bello. L’Africa è un continente enorme – 54 Paesi – con cui l’Europa ha avuto molto a che fare. A volte penso che la non conoscenza da parte dell’Europa sia velata da una colpa, per cui si chiudono gli occhi per non vedere i crimini commessi. Come nel finale di “Tempo di uccidere” di Flaiano, me ne lavo le mani di tutta quest’ Africa che in qualche modo io ho rovinato. Quell’ignoranza è nata dalla storia coloniale che viene rimossa e non solo dall’Italia. In Gran Bretagna, per esempio, un po’ prima della Brexit c’era nostalgia dell’Impero, a dimostrazione di come sia una cosa abbastanza trasversale in Europa. Però io penso che questo debba assolutamente cambiare e che un po’ stia cambiando; c’è voglia di conoscere questo Continente, anche perché Europa e Africa, che erano già vicine in passato, saranno sempre più vicine. Ogni crisi in un posto è crisi anche in un altro, adesso lo vediamo in Sudan. Ma non puoi ignorare l’Africa anche per il futuro che si porta dentro, è uno dei continenti più giovani del mondo, è dinamico… E io, da afroeuropea, mi sento nel mezzo tra le due sponde e cerco di spiegare all’Europa alcune delle dinamiche che ha fatto subire qui a noi afroeuropei, ma provo anche a fare da ponte su alcune tematiche tra lì e qui.

Un tuo libro di qualche anno fa è dedicato allo storico Angelo Del Boca che ha dedicato tutte le sue ricerche al colonialismo italiano. C’è come un fil rouge tra il saggista e la romanziera?

Ci sono tante persone da Del Boca in poi che si occupano di questo lavoro di scavo. E’ un lavoro collettivo non di un singolo. Ci sono tanti giovani, anche donne, penso per esempio a Leila el Houssi, che è una delle poche ricercatrici afrodiscendenti che abbia l’università italiana. Oltre a Nicola Labanca che è un grande storico, a livello di romanzi penso a Francesca Melandri, a Gabriella Ghermandi… Facciamo tutti parte di un lavoro collettivo, in cui ognuno di noi ha un piccolo tassello che aiuta a chiarire gli altri tasselli. E’ un lavoro che si fa insieme ad altri. Anche la letteratura per me non è una cosa solitaria, è una conversazione globale.

E comunque nei tuoi libri il colonialismo è un tema centrale

Sai, in realtà quest’ultimo libro non è sul colonialismo. C’è una “colonialità” di fondo che non manca mai nei miei libri. Io ho fatto libri che vanno dall’800 agli anni ’70 del Novecento e non puoi far finta che la storia coloniale non ci sia, perché permea tutta la storia europea da cinquecento anni a questa parte. Non puoi capire la storia europea anche dei conflitti, anche della stessa nascita delle democrazie, perché la democrazia – come dice Achille Mbembe (africanista e storico camerunense) – ha un lato oscuro che è la piantagione e la colonia, ovvero lo sfruttamento che viene omesso quando si parla di democrazia. Quindi per me è importante sempre tenere a mente questa “colonialità” che permane nella contemporaneità, che permane nelle cose. Cassandra a Mogadiscio parla della guerra civile, del trauma postbellico, della famiglia diasporica e in questo entra la storia del colonialismo e del postcolonialismo. Però il mio ultimo libro attraversa questi temi, ma è un libro intimo, familiare, dove volevo far vedere quanto la Storia con la esse maiuscola possa incidere nelle piccole vite delle persone, nella quotidianità, nella felicità di una famiglia. M’interessava raccontare cosa succede nelle famiglie dei rifugiati, cosa succede dopo venti, trent’anni di esilio, cosa succede a queste persone, qual è la loro identità, qual è il loro equilibrio.

Puoi spiegare a chi non ha ancora letto il tuo libro il titolo “Cassandra a Mogadiscio”?

E’ un doppio riferimento, alla Cassandra della mitologia, quindi a Troia, una città distrutta come Mogadiscio, però è anche un riferimento a una scrittrice che a me piace molto che è Christa Wolf, che la guerra di Troia l’ha raccontata molto bene da un punto di vista femminista.

E il significato della parola “jirro”?

Jirro significa malattia, però nel libro assume tante sfumature come paura, angoscia, trauma. Ma dietro il jirro c’è la cura, perché questo non è un libro pessimista, nel suo ottimismo c’è la consapevolezza di una cura.

Nel libro c’è un mix di lingue, c’è l’italiano ma anche il somalo e un po’ dell’arabo che viene dalla religione. C’è qualcosa che accomuna tutti gli scrittori – fammi dire – “sradicati”, divisi, che hanno un altrove?

Un po’ sì, si è “lost in translation” e un po’ persi tra i mondi, per cui ogni volta si cerca un equilibrio. Io poi nel libro volevo ricreare in forma scritta il lessico famigliare. Queste parole somale mi ancoravano a questa famiglia diasporica che ha dei termini comuni anche se parla lingue diverse. E poi c’è quest’ italiano che ha un retaggio coloniale, che è una lingua che è stata usata per sottomettere, che però poi è anche una lingua rimusicata proprio dai somali. Quindi c’è una lingua piena di contraddizioni e di amore, di ambiguità e di bellezza. C’è Dante e c’è Amir Issaa, c’è la Divina Commedia e un rapper italo-egiziano di Torpignattara.

Racconti poi un aspetto molto intimo che è stato, in un determinato periodo, il tuo rapporto patologico col cibo.

E’ stata una sovrapposizione tra cibo e armi. Vivevo una sfasatura temporale che mi creava un grande disagio, insostenibile, che non sapevo come gestire. Stavo a Roma, la gente intorno a me viveva in tempo di pace, ma io vivevo in tempo di guerra. La guerra non la vedi, è lontana, ma sai che delle armi, delle bombe stanno colpendo i tuoi cari e ti fa molto male. Ultimamente sono stato in una scuola e un ragazzo ucraino che vive qui m’ha detto di provare le stesse cose. E mi ha molto colpito perché è una cosa che purtroppo riguarda tanti giovanissimi che sono da noi nelle nostre scuole.

Che risonanza ha avuto la tua candidatura allo Strega?

E’ stato divertente, nel senso che una persona nera lì non c’era mai stata. Quando sono salita sul palco pensavo “ah, ok, non stai salendo tu, stanno salendo le persone che sono uguali a te”. E’ stato stranissimo, non ho pensato a me stessa, ma al segno di un cambiamento che doveva avvenire prima, non per il Premio, ma per l’Italia. Noi in Italia siamo molto lenti, ma nonostante questa lentezza, i cambiamenti arrivano. E quindi ho pensato “io sto qui, ma domani sarà normale”.

Hai curato un’antologia di scrittori africani (Africana edito da Feltrinelli). Ci dai qualche consiglio di lettura?

Mohamed Mbougar Sarr La più recondita memoria degli uomini, edito da e/o, che ha vinto il premio Goncourt e poi volevo consigliarvi un libro molto divertente La vita segreta delle ragazze di chiesa di Deesha Philyaw, un’afroamericana che parla di queste ragazze che, tra repressione e autodeterminazione, sono intrappolate tra un moralismo ipocrita e i desideri del proprio corpo.

Per finire, mi dici qualcosa sul tuo metodo di lavoro?

Hai presente quando fanno vedere uno scrittore in un castello o davanti ad una baia…? Non succede niente di tutto questo! Scrivo in cucina nei ritagli di tempo quando non lavoro. Non ho un orario fisso, ci sono dei periodi in cui scrivo di più, sono dentro la scrittura, magari nel week end. Scrivo un po’ al giorno, ma molto del lavoro è fatto prima di sedermi al computer, scrivo sui quaderni dove butto delle idee – lo sto facendo anche adesso perché ho delle idee nuove -, leggo delle cose che mi aiutano, ascolto della musica (con Cassandra ho fatto una playlist su Spotify). Ce lo diceva Virginia Woolf: per fare lo scrittore c’è bisogno di una rendita. In Italia gli scrittori o sono ricchi oppure se sei lavoratore fai molto più fatica, perché non ci sono degli indotti come negli Stati Uniti dove insegni all’università o fai cose del genere. Quindi ti devi inventare ventimila lavori perché scrivere sta diventando sempre più un lusso. E non è giusto perché facendo così noi ci perdiamo delle storie, avremo sempre delle storie molto borghesi. E questo mi preoccupa della letteratura.

“Mahadsanid”, grazie Igiaba, ti auguro di “essere sempre nella luce” e … di vincere lo Strega.

Cristina Marra e Gigi Agnano

Cristina Marra giornalista pubblicista, si occupa di critica letteraria da diversi anni con particolare riferimento alla narrativa giallo-poliziesca. È stata direttore artistico di numerosi festival tra Festival Lipari Noir, Arena Faletti di Ombre Festival, Calabria Noir Festival, Bologna on the road, le strade del noir, Festival del Giallo di Cosenza. È organizzatrice di diverse rassegne letterarie e ha scritto racconti noir presenti in diverse antologie. È Direttore della collana noir Emozioni d’inchiostro noir e Piccoli noir dell’editore Laruffa.

Gigi Agnano, socio di IoCiSto, è l’ideatore della Librellula.

 

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