Febbraio 2023, Librellula n° 16
Pubblicato nel luglio 2022 da Aboca nella collana “Il bosco degli scrittori”, Solo di uomini il bosco può morire di Antonella Cilento, è racconto, inchiesta, narrazione storica, autobiografia, cronaca di viaggio. Con la generosità che la contraddistingue, la scrittrice ci conduce per mano lungo un viaggio che ha origini nella sua infanzia. Un’infanzia, quella dei cinquantenni italiani di oggi, caratterizzata spesso da genitori “ipermedicalizzati”, fedeli ad oltranza a farmaci, visite e consigli alimentari oggi del tutto superati. Antonella, ormai libera da questa schiavitù, in reazione alle gabbie imposte in questi anni dalla pandemia, si rifugia e decide di raccontare la foresta regionale di Cuma, la silva gallinarum dimenticata, un lecceto trimillennario che costeggia le dune affacciate per quasi otto chilometri di fronte alle isole di Procida e Ischia. Antonella Cilento ci svela e dipinge con pennellate straordinarie la varietà floreale mediterranea del bosco in cui vivono gallinelle, falchi, volpi. Lascio ad Antonella le parole per condurci in questo viaggio che è suo, nostro, dell’umanità intera che può scegliere di salvare il bosco e rinascere.
Da un autore o un’autrice ci viene consegnata un’opera finita. Il lettore alcune volte non pensa che dietro di essa vi sia oltre che un atto creativo di tipo narrativo, un percorso di ricerca che passa attraverso la documentazione e l’analisi di fonti di varia natura. Alla luce di tutto questo, Antonella, qual è stata la genesi di questa tua ultima opera?
Come spesso mi accade anche per i romanzi di finzione, simultaneo con l’atto creativo è anche il percorso di ricerca. Quando ho iniziato a passeggiare nella Foresta di Cuma le domande sono sorte immediate: cos’erano i trafori nel Monte che si vedevano dalla spiaggia, cos’era stato della Cuma romana nei secoli successivi le guerre greco-gotiche, chi aveva messo mano e quando alla Foresta, chi ne aveva parlato prima di me. E poi c’era la questione floro-faunistica: raccontare una foresta pretende precisione, chiede nomi per ogni pianta, per ogni animale. È parte del processo creativo trovare spunti: da alcuni anni ormai, navigando nelle fonti storiche della città e del territorio precedenti l’anno Mille, come mi è successo per scrivere Morfisa o l’acqua che dorme, mi viene naturale domandarmi: ma poi cos’è successo? Accumulo volumi e bibliografie e questo replica il percorso che faccio con il corpo nei luoghi di cui narro, lo amplia, lo modifica. Solo di uomini il bosco può morire è cresciuto, quindi, di pari passo nei miei quaderni dove registravo il diario quotidiano delle mie passeggiate e nella mia libreria, dove accumulavo Seneca, Amedeo Maiuri, Nicola Cilento, e sul mio computer, dove stratificavo le fonti universitarie conservate dalla rete e i documenti visivi. L’invenzione ha nel suo etimo il verbo latino invenio: creare è mettersi in cerca e trovare. Naturalmente, quel che si trova chiede occhi di poesia.
Leggendo Solo di uomini il bosco può morire ci si accorge pian, piano che la tua personalissima narrazione diventa anche quella di chi legge. Racconto e autobiografia, letteratura e storia, archeologia e biologia si alleano in questo meraviglioso viaggio che parte dalla tua infanzia e prosegue camminando a lungo, nei giorni della pandemia, dentro la foresta di Cuma.
Se accade questo è sicuramente il risultato che desideravo e ne sono lieta. Ci sono nuove forme del raccontare, ibride, che in questo libro tendono a mescolarsi: il romanzo della Storia, quindi il recupero delle fonti e la rilettura anche fantastica della tradizione, il reportage, l’indagine, l’autofiction. Man mano che accumulavo pagine nei miei quaderni, scritti spesso sulla sabbia della Foresta o sui tavoli da pic nic, abbandonati, come i barbecue, accanto al tempio di Iside, non potevo fare a meno di pensare che si può essere esploratori anche in casa propria. E che c’è davvero troppo non detto nel nostro presente. Le mie personali scelte durante la pandemia erano controcorrente e solo controcorrente si racconta davvero, così di colpo si scopre che i salmoni che risalgono un certo fiume non sono pochi, sono tanti… Mi sembra davvero incredibile, poi, al netto del periodo, come ci sia tanto da osservare intorno a noi e quanto poco i nostri contemporanei guardino, distolti dallo sguardo rivolto alla finzione visiva di rete e tv. Portare chi legge a vedere e a vedersi, a sentire e a sentirsi, mi pare un compito basilare della letteratura.
Dando voce ai luoghi, alle creature che li abitano o li hanno abitati, questo libro è un atto di amore per il Creato o è un grido di denuncia e di dolore per l’attuale stato di abbandono e degrado che li caratterizza e che influisce profondamente sul nostro benessere e sulla nostra salute? Quanto la favola allegorica si sposa con l’invenzione e l’inchiesta?
L’uno e l’altro: sono letteralmente innamorata, nel senso sia erotico che mistico, della bellezza del mondo e anche di ciò che bello nel tempo la nostra specie ha costruito o dipinto o creato ispirandosi a questa bellezza. E sono altrettanto inorridita, scandalizzata, a volte raggelata dall’indifferenza, dall’ignoranza e dall’odio con cui avidità e incuria si sposano per distruggere la bellezza. Il modo in cui inquiniamo i nostri corpi e l’ambiente in cui viviamo, senza accorgersi che tutti siamo gli altri in un’altra forma, alimentando dinamiche conflittuali e distruttive, è impressionante. Pur di non sentirci, spaventati come siamo di vivere e al tempo stesso terrorizzati all’idea di morire, diventiamo i peggiori nemici di noi stessi. Ci autoeliminiamo, procuriamo sofferenza per non soffrire. La mantide che guardava l’auto avvicinarsi sul sentiero accanto al collettore borbonico qualche mese fa, osservata in una passeggiata recente nella Foresta, dopo l’uscita del libro, mi ha fatto impressione: un’animale aggressivo, fortissimo, difficile da spaventare che aspettava di poter traversare mentre una Fiat scassata con esemplari alquanto rozzi d’umanità scamazzava la sabbia per arrivare sulle dune protette dove si sversa plastica e spazzatura fra piante rare. La mantide non ha sviluppato millenni di filosofia e lasciato arte incantevole, eppure è infinitamente più saggia degli uomini nell’auto. Che stiamo facendo? Possibile che non ce ne accorgiamo? La mantide ha coraggio, noi siamo vili.

La linea scritta, storica e prestigiosa scuola di scrittura creativa (una delle più antiche in Italia), fondata e diretta da Antonella Cilento.
Parli con grande intensità dei concetti di salute e alimentazione che i nostri genitori avevano negli anni ’80 e, di come questo abbia influito sulla tua crescita anche a livello emotivo. Cosa è cambiato in te nel tempo proprio a seguito di questa esperienza?
Sono cresciuta negli anni Settanta e Ottanta con modelli alimentari e di cura purtroppo non molto diversi dagli attuali: cibo industriale, carne da allevamento, zuccheri e farine raffinati, medicinali allopatici a ogni piè sospinto, l’abbattimento ostinato del sintomo, l’ignoranza assoluta dei bisogni congiunti dell’anima e del corpo. Se possibile, oggi la situazione è peggiorata ed è sempre più comune incontrare bambini ammalati di tumore. Le malattie degenerative sono, come purtroppo profetizzava negli anni Cinquanta Georges Osawha, in continua crescita e aumentano le malattie considerate genetiche. La salute collettiva è decisamente peggiorata e, a dispetto delle statistiche, la vita media si accorcia: centenari sono stati coloro che hanno superato due guerre mondiali, non chi è nato e cresciuto nel dopoguerra. Come racconto nel libro, passare a un regime alimentare naturale, macrobiotico o di ispirazione macrobiotica, mi ha salvato la vita e mi aiuta ancora molto. Soffro se, come può capitare, faccio eccezioni o errori. La gioia, l’energia inarrestabile, l’equilibrio, la serenità, la capacità di guidare se stessi e gli altri che sperimento è frutto di questa scelta alimentare. Sono cambiata a livello emotivo, relazionale, spirituale, oltre che fisico. E sono infinitamente grata a chi mi ha guidato su questa strada.
Il corpo è molto importante nel tuo racconto, anche alla luce del concetto di “cura”. Dal corpo alla foresta di Cuma però il passo è breve: qual è il rapporto tra corpo umano e Natura che racconti nel tuo libro?
Il corpo è per molti secoli rimasto scisso dall’anima e dall’intelletto nella cultura cristiana: un ossimoro che è costato persecuzioni, malattie, guerre. Le donne ne sanno qualcosa e non è un caso che il corpo in tutte le sue manifestazioni sia diventato protagonista della scrittura delle donne. Corpo e natura sono sfere sincrone: in Solo di uomini il bosco può morire ho cercato di rendere evidente che se ci si accanisce sui sintomi si ottiene l’effetto opposto a una guarigione, si realizza un peggioramento. La Foresta è stata nel tempo usata come fonte di legname per le navi dell’Impero, è stata edificata, è stata abbandonata, è stata bruciata, è stata militarizzata e in anni recenti, nel tentativo di preservarla, è stata recintata e poi di nuovo abbandonata, presidiata in maniera equivoca per la presenza della camorra; in fine è stata usata come sversatoio ed è stata anche ripiantumata in modo non efficace: sono molti i pini morti nel lecceto perché entrati in competizione con la flora originaria. Piante infestanti e piante rare, liquami, veleni, spazzatura e animali selvatici convivono tentando di ricostituire un equilibrio che noi abbiamo devastato. Quando la Soprintendenza chiude i cancelli per il tratto pertinente al tempio di Iside impedisce la manutenzione dei custodi, che fanno riferimento ad altre istituzioni, e anche l’auto manutenzione che i visitatori consapevoli organizzano quando vengono a passeggio. Interveniamo in modo violento e poi trascuriamo, come si fa ingolfando i nostri corpi con antibiotici non sempre necessari senza educare le persone a un uso consapevole del cibo. Su queste sincronie, su una maggiore delicatezza, su flessibilità, intelligenza ed energia dovrebbero essere basate le nostre scelte: ma ad ogni onda di fondi altri istinti vengono solleticati, come ben sappiamo.
Credo che tutti dobbiamo leggere il tuo libro, Antonella, per conoscere meglio il nostro passato, amare il presente e proiettarci con rettitudine e gratitudine nel futuro, insomma sentirci veramente umani. Perché se la foresta muore solo per mano nostra, anche noi moriamo, e – come scrivi – lo facciamo scegliendo ogni giorno un modo sbagliato di stare al mondo. Che messaggio ci consegni con il tuo libro?
Cerco di non lanciare messaggi, la letteratura non dovrebbe farlo: semmai pongo domande e sollevo dubbi. Lo spettro delle domande che ciascuno si pone dovrebbe crescere e molto. Abbiamo bisogno di far crescere i dubbi, di incoraggiare le persone a conoscere, a leggere, ad esplorare. Solo da vere crisi nascono le risposte e questo è un libro critico, scritto nei miei cinquant’anni, mentre il mondo sbandava. Abbiate dubbi, abbiatene sempre molti. Fidatevi del vostro corpo, del cuore e del respiro più che della mente.
Se fosse una composizione musicale, quale sarebbe Solo di uomini il bosco può morire?
Una domanda difficile! Direi che questo libro avanza come le Gymnopedies di Erik Satie o come le composizioni di Arvö Part. Ascolto spesso questi compositori scrivendo.
Cinzia Martone
Silloge
L’antica acropoli di Cuma si erge su una foresta dimenticata: la silva gallinarum che costeggia le dune che si srotolano per quasi otto chilometri di fronte alle isole di Procida e Ischia. L’acropoli e i suoi scavi, venuti alla luce negli anni Trenta del Novecento, hanno dato notorietà a questi luighi, ma quasi nessuno conosce la Foresta Regionale di Cuma o il vicino Parco della Quarantena che affaccia sul lago Fusaro. La foresta di Cuma accoglie gli esuli, inclusa l’autrice che vi si rifugia durante il lockdown e la racconta: inchiesta, racconto, narrazione storica e vita vissuta si intrecciano per restituire all’uomo la possibilità di vivere in armonia con sé stesso e il mondo che lo circonda. Dopo tremila anni Cuma è assediata non da etruschi o greci, romani o bizantini ma dall’inquinamento e dell’abbandono, perché, come recita un verso di Danilo Dolci, solo di uomini può morire il bosco, dell’umanità che inquina chimicamente il proprio corpo e il proprio ambiente e che ha perso ogni contatto con lo spirito del mondo.