Le parole sono mondi di Antonella Ossorio

31 Maggio 2023

Giugno 2023, Librellula n° 18

La nave degli scugnizzi

Le parole sono mondi di Antonella Ossorio

A capire quali incredibili opportunità ci regali la lettura di solito si impara da piccoli: proprio quando si è più pronti a lasciarsi andare alla malìa delle storie, ad abitare di volta in volta spazi inattesi, a vestire con la massima disinvoltura i panni di qualcuno “altro da sé”. Poi, se si è fortunati, può succedere di conservare queste capacità per tutta la vita, entrando così a far parte della comunità dei lettori forti; quelli per i quali è naturale considerare l’immersione tra le pagine di un libro un’attività necessaria quasi quanto il respirare. Cosa c’entra la fortuna? Accidenti se c’entra, ché se ti ritrovi a nascere in un contesto che per vari motivi certe potenzialità le mortifica, se non addirittura ti preclude di svilupparle, allora sei fritto. Più che altro fritta, considerato che ancora oggi in molti, troppi Paesi, l’istruzione viene negata soprattutto, sebbene non esclusivamente, alle bambine e alle ragazze. E certo: il sapere rende liberi, rappresenta uno strumento potentissimo senza il quale si finisce per affrontare la vita disarmati, ed è oltremodo facile rendere schiavo chi non può difendersi. Bella scoperta, lo so. Quello che invece non appare così scontato è il fatto che qualcuno – guarda caso, una donna – già ai primi del ‘900 avesse intuito il potere salvifico della lettura e della scrittura. Sto parlando di Giulia Civita Franceschi che per quindici anni, a bordo della nave in disarmo Caracciolo ancorata nel porto di Napoli, diede asilo a oltre 700 bambini orfani o in pericolo di devianza offrendo loro un’occasione di riscatto e un futuro dignitoso attraverso l’avvio ai mestieri legati al mare, e non solo. Manco a dirlo, nel 1928 il progetto, celebrato come rivoluzionario in tutto il mondo, fu bruscamente interrotto dal regime fascista. E tutto torna. Questa vicenda, che come molti non conoscevo e della quale mi sono subito pazzamente innamorata, la racconto a modo mio nel romanzo di prossima uscita I bambini del maestrale, Neri Pozza. A ogni modo, non è certo un caso che Giulia sollecitasse i suoi piccoli, finalmente alfabetizzati, a scrivere brevi racconti autobiografici: un modo per consentirgli di ritrovare, definire e affermare la loro identità calpestata, e non di rado rivelare verità indicibili, attraverso la scrittura. Alcune tra queste brevi autobiografie, conservate nell’archivio Civita-Labiola-Aubry custodito presso il Museo del mare di Napoli, le ho riprodotte fedelmente nel mio romanzo. Altre, come quella riportata di seguito in anteprima assoluta per Librellula, le ho scritte di mio pugno facendo il possibile per rendere intatto il senso dell’ennesima geniale iniziativa di Giulia e le differenti personalità e capacità espressive dei caracciolini.

Giulia Civita Franceschi

Ricordo della mia vita, di Gennaro Aubry

Quando ero piccolo altri non ricordo accanto a me se non mio nonno Ernesto. Nemmeno mi chiedevo chi fossero i miei genitori, addirittura dubitavo di averne avuti mai. Quando il nonno cantava la canzone di Michelemmà mi ponevo sempre la stessa domanda: vuoi vedere che come lei pure io sono nato in mezzo al mare? Mi pareva una cosa bellissima, sinceramente ci speravo. Ma quando ebbi compiuto sei anni venni a sapere dal nonno che mia madre Alba, ovvero sua figlia, era morta mettendomi al mondo e mio padre Pietro distrutto dal dolore era partito per il Brasile. Distrutto dal dolore era partito? Ma come, e io? Ad ogni modo se rimasi deluso di non essere nato in mezzo al mare mi ritenni fortunato di venire cresciuto da un uomo buono come Ernesto. Era un artista, musico ambulante come diceva lui o, come lo chiamavano gli altri, posteggiatore. Andavamo girando per i ristoranti, lui suonava la chitarra e cantava, io passavo tra i tavoli col piattino. Mai che ci ritirassimo con le tasche vuote, senza largheggiare un piatto caldo da mettere a tavola lo rimediavamo sempre. Poi un brutto giorno nonno si ammalò e poco dopo morì (chiedo scusa, di questo preferisco non parlare). Così per non finire al serraglio iniziai a vivere per strada chiedendo la carità ai passanti. Ernano e Buono li conobbi in Villa Comunale alla festa di Piedigrotta del 1911. Insieme ad altri scugnizzi ero stato ingaggiato da un venditore di torroni e franfellicche, dovevamo suonare la trombetta e fare qualche capriola per attirare gente presso la bancarella sua. Eravamo almeno una quindicina eppure gli unici coi quali entrai subito in simpatia furono Ernano e Buono. Avendo saputo che dormivo per la strada mi dissero che loro stavano da un certo Sabatino ‘o cecato che in cambio delle elemosine e del frutto di qualche furterello gli forniva vitto e alloggio: niente di che ma sempre meglio che finire all’orfanotrofio o in un vicolo con la gola tagliata, no? Con la promessa di garantire per me mi proposero di unirmi a loro. Malgrado non avessi mai rubato, accettai. Vedendoci ritirare in tre il vecchio non fece una piega, mi disse solo di filare dritto sennò mi avrebbe fatto pentire di essere nato. Per un po’ la faccenda andò avanti senza troppi problemi, poi arrivò Di Iorio e addio pace. Capimmo subito che il cecato l’aveva preso di mira e che piccolo com’era toccava a noi proteggerlo. Poi una sera che quel vigliacco l’aveva picchiato più del solito, facemmo il pari e dispari: delle due l’una, o Luigino prima o poi ci sarebbe rimasto oppure ce ne dovevamo scappare. Ovvio che ce ne scappammo. In seguito ci chiedemmo molte volte chi ce l’avesse fatto fare di non metterci in proprio prima. Sissignore, ero diventato un ladro a tempo pieno e certo non ne andavo fiero. Ma avevo forse avuto scelta? Comunque la cosa non durò a lungo, manco il tempo di mettere un poco di carne addosso e incontrammo il reverente Viggiano. Quando il nostro caro padre Viggiano ci raccolse promettendo di non dividerci e di condurci in un bel posto tirai un respiro di sollievo, in verità infilare le mani nelle tasche della gente non faceva proprio per me. Mentre salivo per la prima volta sulla Caracciolo mi tornò in mente la voce del nonno che cantava Michelemmà. E allora pensai che se non ero figlio del mare magari col tempo sarei potuto diventarlo. Subito dopo vidi venirci incontro una bella signora. Era la Direttrice Giulia Civita. Ancora non potevo sapere che incontrarla mi aveva salvato la vita, eppure il suo sorriso mi riscaldò il cuore.

Antonella Ossorio

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